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QUESTA NON E’ UNA CROSTATA DI CILIEGIE di Alberto Morsiani

 

La “realtà” in Twin Peaks appare banale, astratta, incolore; i personaggi si muovono come marionette alienate, recitano come in una telenovela. Sotto la realtà, però, giace l’oscurità distruttiva, impersonata da figure come quella di Bob. Bob proviene da un “altro mondo” in cui allignano anche altri bizzarri personaggi, tra cui un nano che parla all’incontrario, grassoni e brutti ceffi, e lo stesso agente Dale Cooper, che però è una figura salvifica, come attesta la sequenza finale del prequel Fuoco cammina con me!  In Lynch, che si tuffò con il sodale Mark Frost nel progetto  di una soap opera per la tv americana (il lungometraggio pilota e i ventinove capitoli seguenti) perché “la formula della storia ad episodi mi consente di sviluppare meglio i miei interessi, di immergermi di più e più a lungo nel mio mondo”, esalta in Twin Peaks l’estetica del dettaglio elevato a significato o metafora universale: come in un ologramma, la parte per il tutto. Il paesaggio della serie, come in un dipinto di Andrew Wyeth, si anima grazie a questi particolari eterni (una roulotte ferma, un black-bass imbalsamato alla parete di un diner hopperiano, un pezzetto di carta attaccato a un tergicristallo…). E’ impossibile negare la specialissima qualità visiva di Lynch quando essa si esprime con una tale “sospensione attesa” sulla realtà di cose e oggetti anonimi e quotidiani, reinventando pittoricamente la banalità dell’esistente. Una fetta di crostata di ciliegie, una tazza di caffè, le ciambelline del Double R Diner… Quel pezzetto di Nordovest americano è diventato un luogo dell’anima per gli spettatori di tutto il  mondo, con i suoi boschi, i suoi ceppi di legno, le sue strade, i suoi capanni, le sue Harley. L’America siderale, superficiale, stereotipata di Baudrillard e le visioni di Hopper e Magritte si danno la mano in Twin Peaks: una surrealtà quotidiana, non più l’angoscia esistenziale della modernità, piuttosto lo straniamento postmoderno di una vita quotidiana che possiede una bizzarra capacità di redimere. Al di sotto della placidità dell’esistente, ecco l’emergere della realtà disturbante e nascosta, il nano ripugnante, la camera rossa, il padre diabolico e incestuoso.  Un fantasma di realtà che è più reale del reale, il quale al paragone appare ancora più vuoto.  Questa realtà fantasmatica di Twin Peaks è il regno dell’eccesso, del grottesco, del malvagio, del godimento, del desiderio mai soddisfatto, del “ridicolo sublime”, per dirla con Lacan. I due mondi della serie, la realtà e il suo doppio fantasmatico, coesistono tranquillamente; non sono una il subconscio dell’altro, non è materia da lettino di psicanalista. E’ questa la grande forza di Twin Peaks: stereotipo asettico e piacere proibito si completano l’un l’altro. Vittima da sacrificare e, insieme, punto di intersezione tra i due mondi, il cadavere di Laura Palmer nel suo sacco di plastica.

 

welcome home di Cristina Muccioli

Dei frames del remake di David Lynch, Twin Peaks, Stella non realizza didascalie iconografiche, né propriamente citazioni per immagini. Isola condizioni esistenziali, atmosfere, habitat dove l’artificio tenta la più accorta operazione mimetica con il naturale. Inchioda stati d’animo e identikit psicologici come fa con il supporto su cui disegna a carboncino. Senza cornice, la tela bianca appesa e smarginata nei punti di presa dell’attaccaglia, somiglia a un panno lavato in pubblico, a una veronica.

Un cartello stradale illustrato nella sua modestia rappresentativa tanto banalizzante da non scomodare nessun presentimento, accoglie il visitatore-spettatore nella località incorniciata all’orizzonte da due picchi montuosi, Twin Peaks: eccoli, belli chiari, immediati, a sottolineare la perfetta coincidenza tra i nomi e le cose. In caratteri cubitali campeggia sopra un ‘Welcome’ in festa: perché le parole hanno (un) carattere.

Se mastichiamo quella minima quantità di inglese che basta a dare un’indicazione stradale a un turista, ricevendone un ringraziamento, sappiamo di non dover rispondere ‘prego’, o ‘non c’è di che’, ma ‘you are welcome’: sei il benvenuto. Una formula che non liquida semplicemente il convenevole. Fa di più, con poco: fa sentire a casa chi è lontano, fa sentire accolti, graditi ospiti.

Restando nel vocabolario minimo attingibile anche da una rivista di arredamento, sappiamo che ‘house’ non è ‘home’. House indica la costruzione impersonale, l’edificio con la sua struttura. Home rimanda, invece, all’immaterialità indispensabile a fare di un alloggio un rifugio, un nido, una privatezza rassicurante fatta di oggetti, odori, profumi, suoni e luci che ci sono familiari. In questo cenno di ricognizione linguistica l’analogia di ‘home’ con il tedesco ‘Heim’ è quasi naturale. Da ‘Heimlich’, ciò che è consuetudinario, fidato, caro, domestico, Sigmund Freud conia, nel 1919, il termine di ‘Unheimlich’ che in italiano è tradotto con ‘perturbante’. Per lo scopritore dell’inconscio dotato di una sua grammatica, di un suo lessico ordinato e significante, la parola che meglio poteva tradurre Unheimlich era attingibile dal greco antico: era Xènos, lo straniero che, in una densità triadica di sfumature, al contempo era ospite degno di immediato soccorso e accoglienza, ma anche nemico.

È in questa irresolubile ambivalenza tra ciò che si manifesta come amichevole e rassicurante, e ciò che è contemporaneamente, inscindibilmente spaventoso e minaccioso; tra ciò che è massimamente vicino e massimamente lontano nel senso di ‘altro’, è questa unicità scissa e contraddittoria a legare le inquadrature del film di Lynch e le rappresentazioni pittoriche di Stella. Il volto radioso e perfetto, con il diadema da reginetta della più bella, della più ricca, della prima della classe che brilla nello scatto fotografico di Laura Palmer a incensare il ‘living’, l’ambiente dove più si vive, della casa di Twin Peaks, è rintracciabile in quello a occhi chiusi del cadavere che no, non nega nulla della leggiadria apollinea dei suoi lineamenti, tant’è che il sacco di plastica in cui è avvolta sembra una sontuosa gorgiera increspata. E così, nel segno dell’Unheimlich, Stella rintraccia e fissa il rosso scarlatto di una parte dell’edicola fotografata da un passante che incomprensibilmente si flette occhiuto verso un particolare che pare arrossire: succedeva a Venezia, luogo eletto delle alterità, luogo in cui le maschere sorridenti e agghindate nacquero per celare i segni della peste, perché i segnati esibissero allegria, eleganza, sfarzo in un rito collettivo di esorcismo non decrittabile dallo straniero.

Nella fetta di torta opulenta, farcita fino a far collassare gli strati di pasta che stentano a racchiudere la cremosità zuccherina (home, sweet home recita l’adagio del ritorno alla tana) e colante delle ciliegie, si annida del nero, cova il dolore, l’osceno, il raccapriccio, il tragico, il tremendum et fascinum che sa amalgamarsi così sapientemente con l’appetitoso, l’accattivante del più socievole e tradizionale convivio famigliare, da accompagnarsi a caffè nero bollente, ristoratore.

Per farlo, oltre al carboncino Stella utilizza la cenere delle sigarette, la polvere che si è depositata negli anfratti: ‘ci ho messo di tutto’, accenna.  Il buono e il nocivo, il bello e il disgustoso, il puro e l’impuro, l’attraente e il respingente non sono scissi, sono coappartenenti. Non potremmo parlare di nessuno di essi se non per differenza, e analogia contigua, con il loro contrario.

Come il sudafricano William Kentridge, Stella predilige il carboncino con la sua matericità grumosa, spessa, grassa, mai indecisa nel lasciare un segno, a quella più asettica dell’acrilico, o di altri ingredienti pittorici.

Disegna come si scrive per asserzioni, nero su bianco. Ripassa i tratti, sfuma con la mano, mischia detriti e rintocchi vibranti di colori a pastello a ricordare che è arte, non presa diretta e documentaria sulla realtà. È presa emotiva, concettuale, filtrata mediata dalla tecnica, dalla mano e dalla materia.

Solo così riusciamo a tollerare l’intollerabile, a non distogliere lo sguardo, a educarlo, invece, a cogliere e a intuire la sporcizia tra la porpora smaltata dei frutti, e il rubino che continua a brillare, anche soverchiato dal nero lasciato dall’ustione lynciana del fire walk with me (fuoco cammina con me) dei traumi quotidiani, stranieri, nemici e ospiti in casa nostra.

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